Il
māndala. Tra le pių affascinanti ereditā dell'arte buddhista vi č il māndala, parola che puō essere tradotta come assemblea sacra. Anche se gli artisti hanno di frequente interpretato il māndala come un cerchio (poiché il cerchio in sé trasmette principi dintegritā, completezza e unitā, tutte cose che il māndala č venuto a simboleggiare), essi sono anche stati resi nella tradizione con la forma di un semicerchio, di un angolo, un triangolo, un tempio e persino col corpo umano. Come ha osservato la studiosa francese Marie Thérčse de Mallmann, nella sua definizione pių ampia il māndala si riferisce semplicemente ad una zona sacrificale essendo la sua forma il riflesso del particolare rito propiziatorio che viene intrapreso. La
struttura del māndala. Nella sua forma pių diffusa il māndala appare come una serie di cerchi concentrici; le sue divinitā sono collocate in una struttura quadrata con quattro elaborati cancelli, a volte descritta come un palazzo o un tempio a quattro lati. Iniziando dai cerchi esterni si trova spesso la seguente conformazione: un cerchio di fuoco, di frequente dipinto come volute stilizzate, che sta a simboleggiare il processo di trasformazione necessario per entrare nel territorio sacro che vi č all'interno. Questo č seguito da un anello di tuoni o di scettri di diamante (vajra) che stanno ad indicare la natura immutabile, simile al diamante, del regno spirituale del māndala. In modo particolare nei māndala che rappresentano divinitā nei loro aspetti adirati, si trovano otto zone di cremazione (smasana) sistemate in una larga fascia che delimita il successivo cerchio concentrico del māndala. Ognuna di queste zone č collegata a uno dei punti cardinali o a uno di quelli intermedi. I loro nomi variano a seconda dei testi ma un gruppo standard include: Candogra (terribile e spaventoso), Gahvara (Abisso Impenetrabile), Jvalakulakaranka (Teschio Fiammeggiante ), Vibhisana (Il Terrifico), Laksmyarama (Il Giardino di Laksmi), Ghorandhakara (Oscuritā Spaventosa), Kilakilarava (Urla di Gioia) e Attattahasa (Risata Chiassosa). La leggenda associa questi otto cerchi a luoghi in India dove asceti si ritrovano per lunghi periodi di meditazione. Alcuni testi forniscono interpretazioni psicologiche dei siti di cremazione proponendoli come la rappresentazione degli otto aggregati della consapevolezza umana (asta vijnana kaya) che lega luomo al mondo degli elementi e al ciclo della nascita e della rinascita. Ogni sito crematorio ha la sua montagna, il suo stupa (simbolo dell'insegnamento di Buddha e, quindi, promessa di salvazione persino nel mezzo del samsara), il suo fiume, il suo albero e il suo mendicante. I luoghi dove avviene la cremazione simboleggiano anche la morte e la paura della morte; confrontandosi con questa paura e superandola uno si trova libero di avanzare verso sfere pių elusive della mente umana. Poi segue un cerchio di petali di loto, a suggerire che i successivi regni puri non esistono nel mondo degli elementi ma in profonditā, all'interno del cuore umano. Quindi ci appare il palazzo, o il tempio del māndala, circondato di mura ai quattro lati, posizionato verso oriente con le sue porte elaborate (torana) che marcano i punti cardinali. Le mura del palazzo sono dorate e ricoperte di gioielli, ciascuna porta č sormontata da due gazzelle adornate con nastri e che stanno di fronte alla ruota della legge buddhista (dharmacakra). Il tempio-palazzo comprende simbolismi sia sacri sia regali che rispecchiano antichi legami tra le comunitā religiose e quelle reali. Alcune iniziazioni (abhisekha) al māndala comportano una incoronazione per mezzo della quale liniziato, che indossa una corona e altre insegne regali, č battezzato con dellacqua e puō cosė accostarsi ai poteri del māndala. Un sovrano regna sulla terra e sui suoi abitanti; il prelato buddhista regna su se stesso e mostra davere padronanza sulla sua stessa vita. Nel tempio-palazzo (kutagara) appaiono i vari cerchi di divinitā del māndala. Questo santuario, che č un punto cruciale nello schema del māndala, comporta unulteriore considerazione. Tutti i templi indiani sono basati su uno schema fondamentale conosciuto come vastupurusamāndala, un diagramma sistemato come un quadrato, circondato da cerchi. Le proporzioni del quadrato e il numero dei suoi cerchi possono variare. Nelle fasi iniziali della costruzione del tempio questo māndala č inciso sulla terra. Il quadrato č orientato verso i quattro punti cardinali, con la sua entrata principale rivolta idealmente verso est. La ragione fondamentale per cui un tempio viene costruito č quella di invocare la presenza divina. Questo avviene per mezzo dei riti sacrificali le cui radici possono trovarsi addirittura nel periodo Vedico (1500-500 a.C. circa). Tradizionalmente il patrono del tempio č chiamato yajnamana, colui che compie il sacrificio, nonostante che sia il prete a compiere il sacrificio per lui. La terra, il luogo del sacrificio, č chiamato l'altare (vedi); viene anche descritto come il ventre (garbha). Su questaltare si compiono molti sacrifici ma č chiaro che il vero luogo sacrificale deve essere all'interno delluomo. Che cosa č sacrificato e a chi? Il rito sacerdotale determina a quale livello avviene il sacrificio. Il sacrificio, al suo grado pių superficiale, esprime il dualismo di colui che si rende conto di sacrificare una sua proprietā al fine di ottenere unintima relazione spirituale con la divinitā da lui scelta. Al suo livello pių alto, tuttavia, il sacrificio č completamento scevro da dualismo, un rito elusivo che si compie nel cuore del sacrificatore. L'uomo cosė sacrifica la propria ignoranza in modo che possa essere sostituita con la saggezza. Il testo sanscrito di epoca medievale, Vijinana Bhairava, riporta: Quando nel fuoco della realtā suprema [...] i cinque elementi, i sensi, gli oggetti dei sensi e la mente vengono fatti sfociare, con il cuore che funge da cucchiaio rituale, questo č vero sacrificio. E nel XVIII secolo il santo bengalese Laksmikara scrisse: [...] Offri venerazione, concentrandoti, solo al tuo corpo perché č lė che risiedono tutte le divinitā. Alcuni māndala ospitano centinaia di divinitā, altri meno. A prescindere dal numero, le divinitā sono disposte in modo simmetrico, a contrassegnare i quattro punti cardinali, quelli intermedi e, a volte, anche il nadir e lo zenit. Un gruppo di divinitā che si trova allinizio del santuario fa ad esso da guardiano ed č in rapporto con la sfera protettiva del māndala (raksacakra). A volte conosciute come vighhnantaka coloro che mettono fine agli ostacoli, queste divinitā impediscono l'entrata a tutti coloro che vorrebbero profanare i sacri regni allinterno, e debellano nelliniziato quelle qualitā che impediscono il suo cammino verso lilluminazione. Essi possono essere quattro, otto o dieci e segnano i quattro punti cardinali, i punti intermedi e il nadir e lo zenit del māndala. Essi mutano ma un gruppo piuttosto comune comprende Yamantaka, Prajnantaka, Padmantaka, Vighnantaka, Takkiraja, Niladanda, Mahabala, Acala, Usnisacakravartin e Sumbharaja. A questo punto nel māndala si possono trovare quattro divinitā femminili che portano offerte e che incarnano le offerte fatte alla divinitā centrale del māndala. Esse contrassegnano i punti cardinali intermedi: Vajramala (sud-ovest; la ghirlanda), Vajragita (nord-ovest; la canzone), Vajranrtya (nord-est; la danza), e Vajralasya (sud-est; la danza damore). Si puō trovare anche un ulteriore cerchio di dee offerenti: Vajrapuspa (sud-ovest; fiori), Vajradipa (nord-ovest; la lampada), Vajragandha (nord-est; il profumo), e Vajradhupa (sud-est; l'incenso). Infine al centro del māndala si trova la divinitā con la quale liniziato sidentifica e le cui caratteristiche spera di condividere. La divinitā centrale puō apparire pacata; ma spesso non lo č. La metafora sessuale suggerisce il processo integrativo che sta al centro del māndala con il maschio e la femmina a simboleggiare le innumerevoli coppie dopposti (per esempio amore e odio, bene e male) di cui si ha esperienza nell'esistenza terrena. L'iniziato cerca di ridurre la sua alienazione accettando e godendo invece di tutte le cose come un terreno di esperienza in cui tutto si collega senza interruzioni. L'immagine sessuale con le sue caratteristiche di appagamento, beatitudine, unitā, completezza, puō anche essere percepita come metafora per lilluminazione. Le divinitā irate suggeriscono invece l'imponente lotta che implica il superamento della propria alienazione. Esse danno corpo a tutte le intime angosce che oscurano i nostri pensieri, le nostre parole, e le nostre azioni e che vietano il conseguimento dellideale buddhista della totale illuminazione. Tradizionalmente le divinitā irate sintendono come espressioni di pensieri benigni, spaventosi solo per coloro i quali le percepiscono come forze estranee. Quando sono invece considerate come espressioni del proprio essere e sottomesse con l'esercizio spirituale, esse assumono un aspetto esclusivamente benevolo. Non sono pių loro a dominare l'uomo ma passano invece al suo comando. Non solo la forma č cruciale per il māndala ma anche il colore. I quadranti del palazzo-māndala sono divisi in modo tipico in triangoli isosceli di colori diversi; quattro dei seguenti cinque: bianco, giallo, rosso, verde, e blu scuro. Ogni colore č collegato con una delle cinque famiglie di divinitā (kula), ognuna di queste governate da un: Buddha celeste (tathagata): Varocana (bianco), Aksobhya (blu), Amithaba (rosso), Ratnasambhava (giallo), e Amoghasiddhi (verde). Ogni colore č anche associato con una delle cinque afflizioni (pancaklesa) della personalitā umana: confusione (moha), orgoglio (mana), invidia (irsya), odio (dvesa), e desiderio (raga). Queste caratteristiche oscurano la nostra vera natura, ma con gli esercizi spirituali, esse possono essere trasformate nella saggezza del tathagata con cui sono collegate: la confusione diventa sapienza della vastitā della realtā (dharmadhatujnana); l'odio diventa saggezza a specchio (adarsajnana); l'orgoglio diventa la saggezza della propria identitā (samatajnana); il desiderio diventa senno del discernere (pratyaveksajnana); l'invidia diventa la sapienza delladempimento (krtyanusthanajnana). Jane Casey Singer |
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