La
ritrattistica
tibetana.
La
ritrattistica era un tema diffuso nell'arte tibetana sebbene si sappia
ben poco riguardo le sue funzioni e il suo significato. Sembrerebbe che
il fattore predominante nella ritrattistica religiosa fosse quello di
presentare il soggetto del dipinto come un esperto buddhista. Il
ritratto celebrativo non deve necessariamente richiamare alla memoria la
fisionomia della persona ma piuttosto i suoi meriti spirituali. Questi
ultimi erano resi attraverso canoni iconografici come la posa, il gesto,
l'associazione di certi simboli rituali e mediante altri codici
iconografici che rivelano la vita interiore del soggetto. Pur tuttavia
non tutti i ritratti erano puramente immaginari; elementi particolari
della fisionomia di un individuo, come la forma del viso e i lineamenti,
il colore dei capelli, l’attaccatura di questi e i peli del viso,
possono avere contribuito a creare alcuni ritratti. Anche in questi casi
in ogni modo la rappresentazione sembra essere stata basata su tipi
fisionomici stabiliti. In alcuni casi ritratti di prelati religiosi sono
difficilmente distinguibili dalle immagini divine: ne abbiamo
testimonianza in una illustrazione tratta da una edizione eseguita con
stampo di legno del Qi sha Tripitaka cinese datato 1301 ora nella
British Library di Londra.
(vedi foto a fianco) Sulla sinistra vi è seduto un monaco tibetano
assistito da due monaci in piedi. Sulla destra c'è Buddha Sakyamuni
fiancheggiato da un monaco indiano e da un arhat. È interessante
osservare i molti paralleli iconografici tra la rappresentazione, da una
parte del sacro fondatore della fede buddhista e dall'altra di un
semplice monaco. Il monaco tibetano e Sakyamuni sono rappresentati nel
medesimo gesto di insegnamento e sono vestiti in modo simile anche se il
monaco tibetano indossa sotto il suo mantello quella caratteristica
camiciola tibetana senza maniche (choko), mentre il Buddha è a
torso nudo e porta solo la tradizionale veste lunga indiana. Entrambe le
figure sono sedute su troni identici, i lati dei quali sono costituiti
da un elefante, vyalaka (grifone) makara (coccodrillo mitologico) e
kittmuka (viso glorioso) che sono familiari a chiunque conosca l’arte
dell'Asia meridionale. Questo trono ha le sue origini in India dove,
come ha dimostrato Madame Auboyer, assume significato di unione delle
forze naturali e sovrannaturali e l’obbedienza di queste a chiunque vi
stia seduto.
Nell’arte indiana è riservato per il monarca universale, (cakravartin)
e per i Buddha, i bodhisattva e altre divinità. In breve questo non è
semplicemente uno scranno ma racchiude in sé un gran significato
simbolico. Le figure rappresentate differiscono principalmente in quanto
il Buddha, seguendo l’iconografia tradizionale della sua
rappresentazione, mostra caratteristiche fisionomiche particolari che in
India sono conosciute come laksana o i segni fisici della sua
illuminazione completa: i lobi delle orecchie allungati, l’‘urna’
(quel segno tra le sopracciglia) e l’‘usnisa’ (la protuberanza sul
cranio).
È largamente dimostrato che gli artisti tibetani nelle loro
interpretazioni dei prelati buddhisti, abbiano preso in prestito dei
canoni nati in origine invece per la rappresentazione dei Buddha e dei
bodhisattva e questo perché essi spesso li percepivano come divinità.
Lo storico della cultura tibetana R.A.Stein nota la singolare
venerazione che i tibetani nutrono per i loro maestri religiosi e
afferma che “ è tipico del (Buddhismo tibetano) [...] che un Lama (guru)
sia superiore a tutte le divinità persino le più importanti”.
La storia di Go Lotsawa (gos lo-tsa-ba, 1392-1481)
dell'inizio del XV secolo conosciuta come gli Annali Blu (deb-ther
sngon-po') descrive con frequenza prelati religiosi rappresentati
come le divinità che si diceva essi reincarnassero. Al venerando Ling (gling,
1128-1188) si attribuisce l'affermazione “ Il mio corpo, la mia
parola e la mia mente non sono differenti dal Corpo, Parola e Mente di
tutti i Tathagata (Buddha) [...] Chiunque rivolgerà a me preghiere
devote, avrà i suoi desideri esauditi”.
Uno
dei discepoli del prelato Kagyu Drigungpa [...] “ non abbandonò
nemmeno per un solo momento la nozione che il Dharmasvamin (Drigungpa)
fosse un Buddha”.
Ci si potrebbe domandare il perché ritratti di prelati (vedi fig. a
p.83), fossero eseguiti e per quali scopi. Negli Annali Blu si
afferma che i dipinti di ritratti a volte si facevano quando un grande
personaggio religioso moriva, venendo poi distribuiti ai monasteri e
alle cappelle frequentate da quel prelato.
Tali ritratti possono essere serviti per commemorazioni sia pubbliche
sia private. La credenza che questi ritratti trasmettessero una presenza
spirituale è suggerita dalla descrizione da parte di Go Lotsawa della
presentazione di Taglung Thangpa Chenpo a Phagmodrupa (1110-1170)
mostrandogli solo il ritratto di quest'ultimo. Immediatamente dopo
Taglung Thangpa Chenpo “ si sentì dentro un desiderio fortissimo di
andare ad incontrare il suo maestro”.
Alcuni ritratti fungevano da centro focale di rituali in cui un
individuo assorbiva insegnamenti dall'immagine dipinta.
Viene alla mente la storia di Mahabarata in cui Ekalavya, volendo
imparare da Drona a tirare con l'arco ed essendo stato ripudiato
dall'impareggiabile maestro, modellò un’immagine in argilla di Drona
e idolatrandola acquistò miracolosamente l'abilità tanto desiderata.
Questa pratica ha attinenza col fenomeno che in India è conosciuto come
darshan, ‘vedere’ la divinità.
Tradizionalmente si pensa che tutti i dipinti tibetani consacrati siano
il riflesso di sfere trascendenti, ‘il sostegno fisico’ (rten)
di una divinità. Nelle fasi finali della consacrazione, la divinità è
invitata a ‘dimorare’ nell’opera d’arte. Nella sua storia
religiosa il secondo Rimpoche di Pawo (dpa’-bo rin-po’-che,
1504 -1566), Tsuklak Trhengwa (gtsug-lag ‘phreng-ba)
narra che il famoso maestro di Buddhismo indiano Atisa (982-1054)
domandò ai suoi seguaci di dipingere un suo ritratto di dimensioni
naturali dopo la sua morte. Egli promise di tornare dal cielo di Tusita
per consacrarlo. Promise inoltre di esaudire la richiesta del suo
discepolo Ngok (rngog) che, dopo la morte di Atisa, il Lama
sarebbe rientrato nella sua immagine ritratta.
Queste osservazioni indicano che almeno alcuni ritratti di prelati
servivano come icone, nonostante che quest’aspetto della ritrattistica
debba ancora essere esaminato in modo esauriente.
Jane
Casey Singer
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