Storia
dell'Arte
Pittura
- Opere
44.
Citipati danzanti
Tibet centrale,
XVII-XVIII secolo tempera su cotone, 60 x 44 cm
Questo dipinto è singolare per più aspetti, che vanno dal soggetto
relativamente poco frequente come motivo centrale di una thang-ka, alla
tecnica adottata (che associa un disegno di pregevole qualità ad una
scadente applicazione della tempera nelle zone colorate), al contrasto
fra la notevole finezza del tessuto di supporto e l'inadeguata
preparazione del fondo (che lascia ampiamente trasparire il disegno sul
verso). Si tratta in effetti di un'opera con una destinazione
inconsueta, rivolta ad ottenere la salvaguardia dei beni del donatore
dall'offesa dei ladri e presentata al collegio tantrico (snags-pa
grwa-tshan) di un monastero, sede specifica dei
I due scheletri danzanti, ai quali i Tibetani si rivolgono nel rito con
le formule dur-khrod-bdag-po lcam-dral (Signori dei cimiteri, fratello e
sorella) o dpa'-bo dur-khrod-bdag-po yab-yum (coppia degli Eroi signori
dei cimiteri) sono accoliti di Yama, il Signore dei Morti, che compaiono
al suo seguito nelle danze rituali ('chams) e che rNin-ma-pa e
Sa-skya-pa collocano fra i più importanti Protettori della sfera
mondana ('jig-rten-pa'i srun-ma). La coppia fratello-sorella
direttamente evoca la coppia parallela di Yama e Yami, ed entro certi
limiti i Citipati possono essere visti come una forma dello stesso Yama
o sue emanazioni.
Le due figure, incongruamente ma efficacemente dotate di tre occhi e di
una lingua vibrante nell'urlo, portano un diadema di teschi culminante
in una corona-vajra e hanno la parte inferiore del corpo coperta da un
drappo di seta. Il fratello ha come attributi il yamadanda (sorta di
mazza costituita da uno scheletro rigido terminante in un piccolo
tridente) e una calotta cranica (kapala) colma di sangue; la sorella un
vaso (kalasa) e un ramoscello. Yamadanda, kapala e kalasa sono attributi
tipici di Yama e Yami.
La lunga scritta alla base del dipinto esplicitamente ne chiarisce la
destinazione e il fine: dopo le prime righe che recano molte volte
ripetuti mantra e dharani (formule magiche) recitati nel culto dei
Protettori, affida ai Citipati la protezione di tutti i beni (mandrie,
greggi, cavalli) dell'offerente. Esprime la certezza che la sola
ostensione del dipinto produrrà terribili effetti su colui che volesse
derubarlo: "possa egli avere il cervello spappolato e misto a
sangue, cuore, polmoni e arterie strappati a forza, fegato e bile
distrutti; possano le tre punte del tridente penetrare nelle tre
aperture del suo corpo! "
La supplica rivolta ai Signori dei Cimiteri perché tengano lontani i
ladri dai beni del devoto, bene si spiega se si tiene conto della
leggenda secondo la quale i Citipati erano, nella loro precedente
esistenza, due asceti così profondamente immersi nella meditazione da
non accorgersi del sopraggiungere di un ladro che li decapitò: da quel
momento essi divennero feroci nemici dei ladri, ai quali giurarono
eterna vendetta. Questa leggenda richiama quella di Yama, al quale pure
i ladri tagliarono la testa, che egli sostituì ponendo sul proprio
collo la testa di un bufalo che gli stessi ladri avevano rubato e
macellato.
La violenza della maledizione profferita può sorprendere coloro che del
Buddhismo tibetano hanno una concezione altamente idealizzata, che
prescinde dalle specifiche forme assunte dal Buddhismo in ambito
tantrico, a contatto con le pratiche e i culti ancestrali della regione
himalayana. Sarà in proposito opportuno tenere presente che delle
pratiche tantriche fanno parte quattro riti fondamentali (las-bzi):
pacificazione (zi-ba), accrescimento (rgyas-pa), dominio (dban) e
"liberazione violenta" (drag-po mnon-spyod), dove con
quest'ultimo termine si intende la liberazione dalla vita, cioè la
morte, sia pure "compassionevolmente impartita con l'intenzione di
trasferire il principio cosciente della vittima ad un più elevato
livello di esistenza".
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